Libia 2011: verso la fine della Jamahiryya? Breve cronologia degli avvenimenti

Posted on 19 Mag 2011


Tripoli - Foto di Marcella Tramaztu

A distanza di tre mesi dall’inizio dei disordini, proviamo a illustrare e  riassumere i principali eventi che hanno sconvolto la grande Libia del Colonnello Gheddafi.

Sebbene influenzata dalle rivolte delle popolazioni tunisina ed egiziana stanche di una sbilanciata distribuzione della ricchezza, della mancanza di lavoro e di regimi politici vecchi, l’insurrezione libica presenta delle caratteristiche  che la differenziano dagli altri casi della nuova primavera araba. È in tal senso che bisogna fare alcune considerazioni. Da un punto di vista “politico”, in un Paese dove la componente tribale rappresenta un elemento cruciale, la permanenza al potere di cui ha goduto Gheddafi dal 1969 a oggi è dovuta non solo alle pratiche repressive adottate nei confronti dell’opposizione, ma anche, in buona parte, dall’appoggio accordato al Colonnello dalle famiglie più influenti. Da un punto di vista “sociale”, le ricchezze derivanti dallo sfruttamento del petrolio hanno fatto la differenza permettendo un certo sviluppo di servizi sociali, in particolare nel campo dell’educazione, della sanità e degli alloggi. Tuttavia, la sbilanciata divisione del potere e delle entrate petrolifere, il contatto con l’esterno attraverso il web e i social network e le stravaganze del Colonnello, hanno contribuito a suscitare un senso di insoddisfazione generale.

E proprio dal web è partito l’invito alla “giornata della collera” (17 febbraio) per manifestare contro il potere di Gheddafi. L’appello, accolto con entusiasmo soprattutto dai giovani, ha dato vita a un primo embrione di contestazione che da Bengasi, tradizionale roccaforte dell’opposizione al regime, si è rapidamente diffuso al resto del Paese.  

L’immediato oscuramento di internet deciso dal governo di Tripoli per intralciare l’organizzazione della rivolta non ha avuto i risultati sperati. Sorprendendo l’opinione pubblica internazionale, certa di una rapida reazione da parte delle forze lealiste, i ribelli hanno preso il controllo del palazzo presidenziale di Bengasi (Al-Katiba) e annunciato la rottura con il regime del Colonnello (20 febbraio).

Di fronte all’avanzare delle manifestazioni e alla forte repressione attuata dalla polizia, alcuni ambienti militari e alcune famiglie fedeli a Gheddafi si sono schierati con i rivoltosi, in particolare, in seguito ai raid aerei ordinati dal Colonnello sui civili di Tripoli (21 febbraio).

 Intanto, i ribelli hanno continuato a progredire verso la conquista della città di Misurata a circa 200 chilometri dalla Capitale (25 febbraio). La famiglia Gheddafi costretta a barricarsi nel bunker della capitale, ha annunciato per voce del Colonnello e del figlio Saif conseguenze disastrose per gli oppositori. Da lì ha continuato ad organizzare la controffensiva facendo ricorso anche al reclutamento di mercenari (perlopiù provenienti dall’Africa Subsahariana) lautamente retribuiti.

Museo Nazionale di Tripoli - Foto di Marcella Tramaztu

Il 26 febbraio, il rifiuto del Colonnello a lasciare pacificamente il potere ha costretto le Nazioni Unite ad adottare una serie di misure contro il regime libico. La Risoluzione 1970 del Consiglio di Sicurezza prevede:

–  embargo sulla vendita di armi;

–  restrizioni sugli spostamenti del Colonnello e di altre persone a lui vicine;

–   la richiesta ai Paesi ONU di attivarsi per fornire assistenza umanitaria al popolo libico;

–  la possibilità di sottoporre il Colonnello al giudizio della Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità;

–  il congelamento dei beni della famiglia Gheddafi.

Nel mentre, a Bengasi, i ribelli hanno costituito un Consiglio Nazionale di Transizione (27 febbraio), composto da 31 persone tra cui giudici, avvocati e uomini di legge, con il compito di coordinare le attività di rivolta e governare le aree conquistate. Il Consiglio è stato immediatamente riconosciuto da Parigi, ma anche altri governi, tra cui quello americano, hanno manifestato la loro approvazione.

Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, soprattutto per via delle pressioni inglese, francese e americana, ma con l’approvazione anche di Italia e Lega Araba, e in risposta alle richieste di intervento avanzate dal Consiglio di Transizione, ha iniziato a prendere forma l’idea di imporre una no fly zone sulla Libia per impedire alle forze aeree di Gheddafi di alzarsi in volo contro i ribelli (7 marzo).

La macchina diplomatica internazionale ha continuato a muoversi alla ricerca di una soluzione. Il Vertice straordinario dell’UE (11 marzo) ha decretato la perdita di legittimità di Gheddafi e individuato il Consiglio Nazionale di Bengasi come interlocutore politico. Un ulteriore colpo basso al regime è arrivato dai diplomatici libici in Europa, all’ONU e all’UNESCO che hanno deciso di togliere il loro appoggio al Colonnello.

Infine, il 17 marzo, il Consiglio di Sicurezza ha assecondato la proposta francese. La Risoluzione 1973, approvata con l’astensione al voto di Germania, Russia, India, Cina e Brasile, ha imposo: l’immediato cessate il fuoco con autorizzazione alla comunità internazionale ad istituire la no fly zone (interdizione dei voli libici sulla Libia), utilizzare i mezzi necessari per proteggere i civili e imporre il cessate il fuoco forzato, ad esclusione di azioni che comportino la presenza di una forza occupante. Obiettivo della Risoluzione è quindi proteggere i civili e non eliminare esplicitamente Gheddafi.

Valutando la situazione sul campo, con il persistere delle insurrezioni contro i ribelli costretti a retrocedere verso Tobruk al confine con l’Egitto, la Francia ha sollecitato un vertice di alto livello con i principali attori coinvolti. Al Summit di Parigi (19 marzo), hanno preso parte i Paesi UE, Stati Uniti, Qatar, Emirati Arabi, Marocco, Giordania e il Presidente della Lega Araba. Assenti, invece, i rappresentanti dell’Unità Africana che hanno condannato qualsiasi tipo di ingerenza in Libia. I convenuti hanno approvato l’intervento di una coalizione internazionale  (“coalizione di volenterosi”) appoggiata dalle Nazioni Unite, la Lega Araba e i principali Paesi europei (con esclusione della Germania).

Museo di Leptis Magna - Foto di Marcella Tramaztu

Il Vertice, di fatto, ha dato il via libera ad una strategia militare per l’attuazione della Risoluzione ONU, che è iniziata appena qualche ora dopo con i raid aerei francesi (Operazione Harmattan) e il lancio di missili da crociera dalle unità navali americane e inglesi posizionate nel Mediterraneo (Operazione Odyssey Down) contro le forze militari di Gheddafi. Anche Norvegia, Oman, Arabia Saudita, Danimarca e Spagna hanno messo a disposizione propri mezzi. 

Più ambigua la posizione dell’Italia per via della paura di ripercussioni in ambito umanitario (flusso di immigrati) e in campo energetico. Tuttavia, il Paese ha messo a disposizione sette basi militari senza escludere un possibile maggior coinvolgimento nelle fasi successive della missione.

Gheddafi, asserragliato nel bunker della residenza/caserma di Bab al-Aziziyah, ha accusato l’Occidente di ingerenza negli affari interni del Paese, minacciato di colpire obiettivi civili e militari nel Mediterraneo e accusato l’Italia di tradimento. In una lettera indirizzata a Sarkozy, Cameron e Ban Ki-Moon ha evidenziato che “la Libia è dei libici e voi non avete il diritto di intervenire nei nostri affari interni”, e ha giudicato l’intervento come “palese forma di colonialismo”. Intanto, la residenza del Raìs è rimasta circondata da manifestanti favorevoli al regime, schierati come scudi umani per proteggere la famiglia Gheddafi e desiderosi di ritirare i sussidi promessi dal regime.

L’intervento non è stato privo di dissapori all’interno della stessa coalizione (20 marzo). Protagonista del disaccordo soprattutto l’Italia che, preoccupata per la leadership francese, ha fatto pressione affinchè l’intervento fosse posto sotto il comando ONU. La proposta è stata appoggiata da Stati Uniti (che intanto hanno deciso per un ridimensionamento della propria partecipazione) e Gran Bretagna, mentre, la  Francia ha assunto una posizione più moderata chiedendo che alla NATO fosse assegnato il solo ruolo di supporto per non infastidire i Paesi Arabi partecipanti alla coalizione.

Per meglio definire gli intenti della missione, il 29 marzo, i Ministri degli Esteri dei Paesi coinvolti e i rappresentanti delle organizzazioni internazionali (con l’assenza di quelli dell’Unione Africana) si sono incontrati nella Conferenza di Londra in cui hanno sostenuto la necessaria uscita di scena di Gheddafi e l’impegno ad appoggiare la società libica per facilitare l’applicazione della Risoluzione delle Nazioni Unite e scegliere autonomamente il proprio futuro. Nuovo obiettivo, quindi, è diventato non più solo la protezione dei civili ma anche la sostituzione del regime di Gheddafi con il Consiglio Nazionale di Transizione il quale ha promesso elezioni regolari e corrette per il futuro della Libia.

Il 31 marzo le operazioni di comando della no fly zone (operazioni di pattugliamento) e di controllo per il rispetto dell’embargo sulle armi sono passate in mano alla NATO (Operazione Unified Protector). Gli Stati Uniti hanno appoggiato il passaggio di comando ma assicurandosi il mantenimento della partecipazione dei Paesi arabi. Il bombardamento sui dispositivi militari del regime, invece, è rimasto in mano alla coalizione di volenterosi.

Ghadames - Foto di Marcella Tramaztu

Con l’avanzata dei ribelli e gli attacchi aerei della coalizione, il Colonnello ha deciso di cambiare tattica. Per confondere le idee sull’individuazione dei nemici, ha abbandonato l’uso di tank a favore di mezzi civili simili a quelli usati dai rivoltosi e ha dispiegato le sue forze tra la popolazione e le abitazioni civili. Inoltre, ha iniziato un’azione diplomatica per porre fine agli scontri (colloqui telefonici tra il primo ministro di Tripoli e il premier greco Papandreu; trattative dei fedeli di Saif Gheddafi con la Gran Bretagna). Il 2 aprile, Gheddafi, però, ha rifiutato la proposta del Consiglio di Bengasi di cessate il fuoco.

Il 10 aprile, il Presidente sudafricano Jacob Zuma ha annunciato che Gheddafi si è mostrato disposto alla Road Map proposta dall’Unione Africana per trovare una soluzione duratura volta a porre fine alla situazione di guerra. La delegazione dell’UA ha annunciato che avrebbe consultato anche i ribelli di Bengasi, ma il Consiglio di Transizione ha rifiutato i termini della proposta che prevedeva il momentaneo permanere di Gheddafi alla guida del Paese.

Oltre all’aspetto militare, la coalizione ha costituito un “gruppo di contatto”, cioè un comitato politico, che si è riunito per la prima volta a Doha (13 aprile) per discutere sulla situazione e sullo stato delle trattative. Sono state prese alcune decisioni importanti:

– creare un meccanismo di finanziamento per sostenere il Consiglio di Bengasi;

– fornire ai ribelli strumenti materiali per l’autodifesa, in particolare nelle aree in cui è difficile per la NATO arrivare;

– ritiro di Gheddafi.

Ad aprile, le forze di Francia, Inghilterra, Belgio, Danimarca, Canada e Norvegia (che prima aveva bloccato i suoi aerei per avere chiarimenti sulla risoluzione ONU) risultavano realmente operative nella missione. Le forze di Italia e Svezia, invece, si sono limitate a operazioni di ricognizione senza coinvolgimento militare.

Ma forti critiche sulla sua gestione della missione sono arrivate alla NATO da più fronti. Prima di tutto da parte dei ribelli che hanno accusato la mancanza di vere operazioni per fermare le forze di Gheddafi a Misurata, nella quale, tra le altre cose, è esplosa una grave emergenza umanitaria. Il malcontento è stato generato anche dopo che, il 3 aprile, le forze della coalizione hanno ucciso, accidentalmente, 13 ribelli in un attacco a Brega. Francia e Inghilterra, invece, hanno lamentato il numero limitato di interventi e bombardamenti e la posizione moderata dell’Alleanza dovuta, principalmente, alla contrarietà di alcuni Paesi membri all’iniziativa (Germania e Turchia).

Il ritardo e il disordine delle operazioni, in realtà, va cercato soprattutto nella mancanza di coordinamento tra le forze occidentali e i ribelli. Inoltre, rivoltosi hanno dimostrato di non avere sufficiente organizzazione, preparazione militare e armi per compiere il passo decisivo. Il Consiglio di Transizione ha sollecitato il rifornimento di armi, ma la Francia ha evidenziato l’incompatibilità della risoluzione ONU con un possibile aiuto militare. A metà aprile anche l’Italia ha dichiarato il suo rifiuto alla fornitura di armi preferendo la concessione di strumenti militari quali veicoli, apparecchi di radiocomunicazione, ecc.

Di fronte a questa situazione, il 14 aprile, al Vertice NATO di Berlino i 28 alleati si sono impegnati a continuare le operazioni fino a che le violenze contro la popolazione non saranno cessate. Il Segretario Generale Rasmussen ha posto come condizione il raggiungimento di tre obiettivi: la fine della brutalità contro i civili, il ritiro delle forze del regime di Gheddafi e la garanzia di consentire “accesso pieno e libero” agli aiuti umanitari.

Allo stesso tempo, Stati Uniti e alleati, ma anche l’Unione Africana, si sono mobilitati per cercare un Paese (soprattutto africano) disposto a ospitare il Colonnello, uno Stato che non riconosca la Corte Internazionale di Giustizia (che indaga sui crimini di Gheddafi). Lo scopo di queste decisioni è favorire un’uscita pacifica del Colonnello e lasciare ai libici decidere il futuro del Paese. 

Intanto, tra il 14 e il 15 aprile, i sevizi segreti hanno diffuso la voce secondo cui il Colonnello avrebbe liberato oltre 15 mila detenuti dalle carceri libiche  (perlopiù africani sub sahariani) per favorire la loro partenza verso l’Italia già devastata dall’ingente numero di profughi tunisini arrivati tra marzo e aprile. Nonostante la notizia poco positiva, l’Italia ha incontrato il presidente del Consiglio Nazionale di Transizione Mustafà Abdel Jalil e ha ufficialmente riconosciuto il CNT come rappresentante del popolo libico (19 aprile).

Il giorno successivo, a Roma, si sono incontrati i Ministri della Difesa di Italia, Francia e Inghilterra e hanno approvato l’invio di consiglieri militari e istruttori (dieci per ciascun Paese) per addestrare i ribelli libici di Bengasi. Il Colonnello si è affrettato a mostrare la propria disapprovazione e a minacciare le tre potenze di conseguenze disastrose. Intanto, il Rais avrebbe anche iniziato la distribuzione di armi tra i civili per contrastare la ribellione e un eventuale attacco NATO di terra. Avrebbe continuando anche il reclutamento di mercenari, la maggior parte dei quali sembrerebbe provenire dal Fronte Polisario, Niger e Mali.

In seguito alla richiesta NATO di un maggior impegno dei Paesi della coalizione e all’incontro con il Presidente Sarkozy e successivamente al colloquio telefonico con il Presidente Obama, il Premier italiano ha annunciato il cambio di posizione dell’Italia e ha autorizzato le missioni aria-terra contro gli obiettivi militari del regime libico.

Libro verde - Foto di Marcella Tramatzu

Dopo una breve parentesi interna di disordini dovuti al disaccordo per via della mancata previa consultazione riguardo la decisione di un maggiore coinvolgimento in Libia, il 3 maggio la Camera ha approvato la mozione per l’intervento e le condizioni poste dalla Lega Nord (indicazione di un termine temporale entro il quale concludere l’intervento italiano; l’impegno a non adottare pressioni fiscali per il finanziamento della missione; la rinuncia alla partecipazione a un eventuale intervento di terra).

Il 30 aprile, i caccia della NATO hanno colpito non la caserma di Bab al Aziziya, ma un’altra residenza dove solo pochi sembrerebbe sapessero fosse nascosto Gheddafi. Nell’attacco avrebbero perso la vita il figlio più giovane, Saif al Arab, e tre nipotini di pochi mesi. 

Il 1 maggio, Gheddafi è riapparso alla televisione di Stato libica e ha chiesto alla NATO di trattare. Allo stesso tempo, ha condannato il Governo italiano e il suo colonialismo, ha denunciato la violazione del Trattato di Amicizia e Cooperazione del 2008 che non permette l’uso delle basi italiane contro la Libia (Trattato che l’Italia aveva già ufficialmente sospeso il 24 marzo) e ha minacciato di portare la guerra in Italia. A questo momento, il Rais ha smesso di comparire senza lasciare prove di una sua eventuale morte o fuga.  

Il 5 maggio, a Roma, si è riunito per la seconda volta il Gruppo di Contatto. All’evento hanno preso parte i rappresentanti di 19 Paesi che hanno ribadito quanto deciso nell’incontro di Doha e nel Vertice NATO di Berlino e deciso per l’istituzione del fondo di finanziamento per le operazioni in Libia. Il Segretario della NATO Rasmussen ha ringraziato l’Italia per le ultime scelte fatte, ma ha sottolineato che, al momento, l’Alleanza non è in grado di stabilire i tempi per la fine delle operazioni.

Un ennesimo raid dell’Alleanza su Tripoli, nella notte tra, ha pesantemente colpito il bunker di Gheddafi.

Dopo gli ennesimi raid che hanno colpito il suo bunker (tra 8 e 9 maggio), l’11 maggio, Gheddafi è riapparso alla televisione di Stato senza indicare il luogo in cui si trova e riaffermando solo di non aver lasciato il Paese. Secondo alcuni osservatori sarebbe nascosto nel deserto di Ash Sharyf, ma la notizia non è stata confermata. Nel mentre, i ribelli hanno annunciato di aver ripreso il controllo dell’aeroporto di Misurata e di aver liberato la città dopo giorni e giorni  di assedio della forze del Colonnello. Misurata rappresenta il primo centro della Tripolitania a cadere nelle mani dei rivoltosi di Bengasi.

Ghadames - Foto di Marcella Tramatzu

Il 14 maggio, la televisione libica ha comunicato che il raid della Nato su Brega del giorno precedente è costato la vita a undici imam. La popolazione fedele al Rais ha iniziato a manifestare contro le forze impiegate in Libia e, in particolare, ha annunciato vendetta contro l’Italia.

Ormai stanco della situazione, secondo i suoi fedeli, per porre fine agli attacchi della NATO il Colonnello starebbe studiando un piano per lasciare il potere, “senza l’umiliazione della sconfitta o della fuga”, a favore di nuove istituzioni scelte dal popolo libico.

Il suo “ultimo” desiderio di “continuare la propria vita in maniera dignitosa” sembrerebbe però contrastato dalla Corte Internazionale di Giustizia che sta lavorando all’eventuale mandato d’arresto per crimini contro l’umanità per Gheddafi, il figlio Saif al Islam e il capo dei servizi segreti Abdullah al Senoussi.

La fase attuale delle vicende libiche è caratterizzata non solo dalla ricerca di una adeguata uscita di scena del Rais, ma anche da una sempre più grave situazione umanitaria che, nelle ultime settimane, si è espressa soprattutto con il cospicuo flusso di immigrazione che Gheddafi aveva tanto minacciato di usare come arma contro l’Italia. Sono migliaia gli immigrati, di varie nazionalità, fuggiti dalla Libia e giunti sulle coste italiane. Ma sempre più numerosi sono anche quelli che non sono riusciti a ad arrivare perché hanno perso la vita in mare.

 

MARCELLA TRAMATZU, CSAS Centro Studi Africani in Sardegna

Fonti: La Stampa| La Repubblica| Il Corriere della Sera| Limes| Euronews| Ansa| ISPI