Da Ouagadougou

Posted on 13 Mag 2011


Arriviamo a Ouaga con il mio gruppo italiano dopo un viaggio in macchina durato quasi 15 ore, iniziato alle 4 del mattino a Porto Novo, in Benin. Un viaggio segnato da un caldo afoso che rende l’aria secca, il respiro pesante e da una pregnante puzza di benzina proveniente dalla nostra autovettura, una Volvo vecchio modello. All’ingresso della città veniamo fermati da un posto di blocco: mi rendo subito conto di quanto la situazione sia tutt’altro che tranquilla. Il poliziotto inizia a parlare in francese, lo capisco poco, ha un modo di pronunciare le parole così chiuso che rende ancora più difficile seguirlo. Ci chiede i soliti documenti, visto, passaporto e poi ci dà delle informazioni su Ouaga. In città negli ultimi giorni c’è stata una rivolta: il governo del Burkina Faso è stato disciolto e nominato un nuovo capo di stato. Il Presidente, Blaise Campaoré ha ordinato l’osservanza del coprifuoco dalle 18 del pomeriggio fino alle 6 del mattino seguente. Ho paura, un genere di paura che credo di non aver mai provato prima d’ora nella mia vita.

Raggiungere l’albergo si rivela un’impresa! L’uomo che ci ha condotti da Porto Novo a Cotonou è in preda al panico, non se la sente di addentrarsi nella città perché come ci hanno spiegato i militari è già scattato il coprifuoco; parla nel suo dialetto locale, gesticola animatamente facendoci capire che dobbiamo scendere alla svelta dalla sua macchina. Pochi metri infatti e siamo a terra, davanti ad una stazione degli autobus decadente, squallida, poca illuminata. Ci sono delle macchine ferme nello spiazzo davanti a essa: sono dei taxi. Contrattiamo qualche secondo sul costo della corsa, siamo bianchi e non è raro che i prezzi vengano gonfiati intenzionalmente. Saliamo finalmente sul taxi e ci dirigiamo al nostro hotel, l’Avenir. La strada è deserta, le luci sono spente, la città appare immobile e quasi addormentata nonostante siano appena le sei del pomeriggio. La tensione nell’aria è palpabile senza grande sforzo. Il conducente del taxi ci rivolge a stento la parola. Arriviamo in pochi minuti in hotel e tiro un sospiro di sollievo: le mie mani sono sudate, la stanchezza si fa sentire e ho solo voglia di fare una doccia per sciogliere la tensione accumulata dal viaggio e mettermi a letto. Crollo in un sonno profondo prima ancora di mettere a fuoco i dettagli della mia stanza e dove sia realmente finita.

Al mattino vengo svegliata dal pianto incessante di un bambino che non capisco bene da dove provenga e dal rumore di una sirena di una volante della polizia. Avverto un forte senso di agitazione percorrermi la pelle. Mi alzo rapida dal letto e dopo aver bevuto un succo d’arancia comprato durante il viaggio il giorno prima, scendo nella hall dell’albergo, accendo il pc e mi collego al sito della Farnesina, cercando notizie attendibili sulla situazione del Burkina Faso e di Ouaga.

Rimango attonita, agghiacciata: il momento è più instabile di quanto pensassi, non si sa bene cosa potrà accadere nelle prossime ore. Quello che leggo mi getta nello sgomento estremo, al punto da farmi quasi dimenticare il motivo della mia presenza in Africa. Improvvisamente tutto mi appare una follia! Mi sento una pazza ad essermi avventurata sola in un posto così lontano, senza una conoscenza chiara delle condizioni del luogo e per giunta con due mezzi sconosciuti!

L’unica cosa da fare è contattare le varie ambasciate italiane presenti sul territorio e informarle del nostro arrivo.

Dò il via ad una ricerca fittissima di siti web e indirizzi, a cui seguono mie numerose mail. Scrivo a tutti: all’Unità di Crisi in Italia, al Console onorario della Costa d’Avorio, al Console del Burkina Faso, al Consolato di Cotonou.  Poche righe, identiche per ogni mail, colme d’angoscia e disperazione, nella speranza che squarcino lo schermo e raggiungano in un colpo d’occhio la coscienza di chi legge la mia richiesta urgente d’aiuto.

Passa un’altra mezz’ora, altrettanto lenta e squilla il telefono della mia stanza: mi chiamano dalla hall annunciandomi l’arrivo del Console. Scendo velocemente le scale e le vado incontro. Alin è una donna giovane, probabilmente sulla quarantina; veste con un camice colorato verde acqua pastello che mi colpisce ricordandomi quelli che ho visto indosso ad alcune donne di Cotonou, in Benin. Il Console ha un volto disteso, non sembra preoccupata, il che è incoraggiante. Mi dà subito del tu e mi abbraccia: comprendo che il nostro sarà un colloquio informale. Il suo arrivo mi rianima e così inizio a spiegarle quanto mi spaventi quello che sto vivendo e quanto sia forte la mia necessità di capire cosa sta accadendo effettivamente in Burkina  e, a Ouaga in particolare. Le notizie lette sui siti internet o sui giornali locali, possono essere poco “attendibili” a seconda di chi le scrive, stravolte o “gonfiate” con l’ intento preciso di manipolare l’opinione pubblica e fomentare ulteriori  dinamiche di ribellione.

Alin mi spiega che il Presidente, Blaise Campaoré,  è un ex militare al potere da ben 24 anni. La rivolta contro di lui è iniziata giovedi sera, 14 Aprile, in due caserme della capitale Ouaga. I soldati sono scesi nelle piazze per chiedere il pagamento degli stipendi e poi hanno iniziato a saccheggiare numerosi negozi. Anche la casa del sindaco è stata presa d’ assalto: i militari hanno fatto irruzione sparando, ma per fortuna non ci sono stati feriti. Il focus reale del problema è che il governo teoricamente è repubblicano, ma nella prassi è più simile ad un regime dittatoriale. Il potere decisionale si estende dal Presidente ai suoi “bracci” costituiti da clan locali che curano gli interessi di una cerchia ristretta di individui, il che implica una netta disuguaglianza nella distribuzione delle risorse del Paese: continuano ad arricchirsi in pochi, mentre la gente comune muore di fame, conduce una vita di stenti. Questa stessa gente ha contestato in Marzo contro il regime del Presidente, ma senza ottenere alcun risultato. 

Alin mi spiega che il nome  attuale, Burkina Faso, fu istituito nell’agosto del 1984 dal rivoluzionario Thomas Sankara e significa “la terra degli uomini integri”. Poi mi parla del passato storico del Burkina, segnato dalla lunga colonizzazione francese iniziata nel 1896. L’ indipendenza fu raggiunta solo nel 1960, ma anche dopo di essa, il Paese non riuscì a sottrarsi ad un periodo di forte instabilità politica rappresentato da due colpi di stato: il primo nel 1966 che portò al potere i militari fino al 1978, ed il secondo nel 1980.

Comprendo che tale instabilità si è trasformata in vero e proprio carattere costitutivo del territorio: Alin infatti definisce gli avvenimenti di questi giorni “fisiologici e ciclici”. La gente sembra essersi abituata a questo stato di cose, convive con esso da anni, ed è fermamente convinta che l’unico modo per riuscire ad ottenere dei cambiamenti sia attraverso dei moti di rivolta simili a quelli a cui stiamo assistendo.

Rimango esterrefatta dalla naturalezza con cui il Console racconta ogni cosa, una naturalezza accompagnata quasi da una tacita rassegnazione. Le sue descrizioni in parte mi tranquillizzano e in parte non fanno che accrescere la mia tensione, poiché comprendo che in questi casi non si sa mai come andrà finire: la situazione potrebbe degenerare in un colpo di stato o proseguire in una fase di stallo a oltranza.

Il Console mi offre ospitalità presso la sua casa, evidentemente legge il panico sul mio volto e mi informa che altri due italiani sono stati accompagnati da lei fuori dalla capitale, in un villaggio a pochi chilometri da Ouaga. Si dice dispiaciuta dal fatto che la gente scappi, mentre io non posso far a meno di pensare che la gente si allontana perché ha delle motivazioni forse più ragionevoli del suo accorato senso di difesa della città.

Il Burkina Faso è un Paese realmente povero, aggravato dalla sua posizione geografica priva di sbocchi sul mare, da un clima tropicale contrassegnato dal vento secco e caldo proveniente dal Shara, da un’ iniqua distribuzione delle risorse economiche.

Il paesaggio che ho osservato durante il viaggio Benin-Burkina era terribilmente spoglio: terra sterile; strade poco asfaltate; piccoli villaggi disseminati tra i campi fatti di capanne di legno che sorgono l’una accanto all’altra, popolati da uomini e donne vestiti di nulla, da bimbi che corrono con piedini scalzi forse ormai insensibili al caldo incandescente che sale dal terreno, in uno stato prettamente primitivo e in condizioni igeniche lontanissime dagli standard di normalità europei.

Al fine di ristabilire gli equilibri necessari ad assicurare l’equità del benessere dell’intera popolazione ci vorranno anni e, soprattutto, la volontà concreta di agire seguendo i bisogni più urgenti del Paese: primo fra tutti, un sistema idrico che punti su progetti di agricoltura sostenibile. Molti ragazzi del luogo dimostrano reale interesse e motivazione verso azioni orientate allo sviluppo della pratica della Permacultura basata sulla coltivazione consociata, al fine di sfruttare al cento per cento gli spazi coltivabili e sulla creazione di sistemi di irrigazione “ad hoc” strettamente correlati alla morfologia dei terreni.

Affinchè queste voci non rimangano degli echi dispersi nel vento c’è bisogno di un forte supporto da parte di chi occupa posizioni di potere decisionale, di infinita coscienza e profonda umanità.

Leggo tra le righe delle parole del Console, che senza l’elezione di un nuovo Presidente sarà difficile modificare lo status quo. I rimpasti politici gettano solo fallaci illusioni negli occhi della gente comune, che fiduciosa continua ancora ad attendere una rivincita sul proprio destino, sulla propria stessa vita.

 22 aprile 2011

MOIRA FUSCO