Vi proponiamo il racconto di un viaggio a Malabo, in Guinea Equatoriale.
Un tuffo che sembra nel buio, eppure penso sempre all’Africa come ad un’abbacinante luce del sole, breve ma intensa. La stagione delle piogge mi coglie impreparata e a parte il sole che mi porto dentro per la gioia di ritrovare qualcuno che amo, l’acqua scende a fiumi e scatena i bimbi che ballano e giocano sotto la pioggia come una promessa ritrovata, un appuntamento atteso. Iniziare un viaggio è come tendere l’ordito, un unico filo della propria vita nel quale si intrecciano altri fili, altri colori, altri nodi; possiamo anche cambiare tecnica durante il lavoro, ma sarà comunque un pezzo unico irripetibile. Così incontro Plácido Guimaraes o meglio Pocho, un uomo semplice e stravolgente, come la sua arte.
Qualcuno ha detto di sé: “ L’arte non ha bisogno di me, ma io sì di lei”. Io che ho bisogno dell’arte come la mia acqua, la vedo vivere dentro e intorno a questo uomo africano che si porta appresso mille rituali e una parte della storia della Guinea Equatoriale. Il nome della città di Malabo ha a che fare con un nonno meraviglioso e saggio di cui Pocho sente un’eredità che si legge nel portamento sotto i suoi abiti larghi. Racconta che ha cercato nella pittura, l’espressione della sua anima ma solo intrecciando la materia riesce a esprimersi. Così le sue mani secche e scure, corrono lungo l’ordito come su una rudimentale tastiera che annoda sinfonie cromatiche a virtuosismi tecnici dove il salal si intreccia con il cotone, con i gusci delle caracoles e diventa scultura.
Camminando nella selva, anche se io ho visitato qualcosa di già addomesticato, si capisce come la natura vive dentro di lui, le radici si intrecciano con le foglie, come dal tronco nascono dei frutti grossi e meravigliosi come quelli del cacao, come i verdi si rincorrono senza tregua, vivendo un continuo abbraccio. Accetta di farmi da Maestro, ne sono onorata e emozionata, vado nella sua casa per il primo laboratorio, in mezzo alle sue cose; sta lavorando ad un’opera non molto grande siede su una cassa di plastica gialla e le sue spiegazioni sono chiare e sintetiche come schemi ripetuti mille volte, ma avvolti in qualcosa di tenero, un modo di essere grato all’arte. La tecnica è funzionale alla comunicazione, puoi cambiare tecnica per sottolineare un colore, un attimo, una vibrazione e poi tornare a tessere un punto di base, solo, come se camminassi per arrivare al luogo dell’emozione.
Con lui, ancora di più, l’emozione è come un luogo dove stare a parlare, meditare, o corrrere e, affannati, tornare a riposare. E’ il luogo dei suoi spiriti, dove il suo maschile e il suo femminile si incontrano e la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco convivono in un continuo accendersi e spegnersi, volare e cadere, amare e disamare. A me pare di vedere dentro uno specchio un’immagine che parla di tutti gli uomini e a tratti prende i contorni del suo viso, a tratti del mio, a tratti ancora diventa una vecchia e poi un vecchio e improvvisamente sorride e di nuovo mille bambini sono intorno a noi.
Grazie Pocho. Tessere per me non sarà più la stessa cosa.
LUISA BAYRE CARCANGIU