Nonostante si tenda ancora ad associare l’Etiopia alla carestia – ed è vero che in alcune zone del paese vi sono ancora problemi di malnutrizione – questo non vuol dire che qui non si eserciti l’arte della buona cucina. Anzi, la cucina etiope è particolarmente ricca ed appetitosa, come ben sa chiuque sia stato nel paese o, più semplicemente, in uno dei ristoranti etiopi che pian piano stanno emergendo anche in Italia.
L’alimento base della cucina locale è l’injera, una specie di pane spugnoso di forma circolare, fatto con un cereale tipico della zona, il teff – molto più difficile da spiegare che da mangiare! Chiamarlo “alimento”, in realtà, è riduttivo: l’injera fa allo stesso tempo da piatto, cibo e posata. In pratica, vi viene servita un’injera di larghezza variabile, e comunque dal diametro mai inferiore ai 35-40 cm, ma più spesso vicino ai 50 (ad ogni modo, è uso comune condividerla con altri commensali), con sopra ciò che caratterizza il piatto: a seconda dei casi, stufato di carne o di verdure, salse, e chi più ne ha più ne metta. Ad esempio, nel caso del piatto chiamato firfir, il ripieno è un’altra injera inzuppata di deliziosi sughetti. A questo punto, si stacca un pezzo di injera dal bordo e lo si utilizza – rigorosamente con la sola mano destra! – per prendere un boccone di cibo. Spesso viene servita anche dell’altra injera asciutta, arrotolata, nel caso quella su cui è posato il cibo non fosse sufficiente, o fosse ormai troppo inzuppata. Da rilevare che il concetto di sufficienza deve essere tarato pressapoco sull’appetito di un rugbysta.
Contrariamente a quanto viene insegnato a noi sin da piccoli – “Finisci tutto quello che hai nel piatto! Pensa ai poveri bambini africani!” – qui è buona norma lasciare un po’ di cibo sul piatto. Secondo alcuni, ciò si deve alla credenza che spazzolare tutto attiri la carestia, o comunque la mala sorte. Altri lo ritengono più prosaicamente un modo per indicare al padrone di casa (o del ristorante) che ci si è alzati da tavola sazi, e che quindi non c’è da reclamare sulla loro ospitalità. Qualunque sia la ragione, non c’è da preoccuparsi: a meno che non siate il rugbysta di cui sopra, vi sarà semplicemente impossibile terminare tutto quello che vi porteranno davanti. Questo non solo per le quantità generalmente abbondanti, ma anche per le incredibili proprietà sazianti dell’injera, secondo alcuni dovute al processo di fermentazione al quale viene sottoposto il teff, e che hanno una cruciale importanza in contesti di povertà. Altro particolare degno di nota per il turista goloso è che i costi sono davvero irrisori: un piatto difficilmente viene a costare più dell’equivalente di due o tre euro, e non stiamo parlando di bettole, ma di ristorantini turistici, carini e puliti.
Ma veniamo alla questione del digiuno: il termine viene usato per indicare la prescrizione, per i fedeli della Chiesa ortodossa etiope (la religione maggioritaria nel paese, in particolare negli altopiani dove si trova Addis Abeba) di astenersi dalla carne e da altri prodotti di origine animale tutti i mercoledì e i venerdì, più nei sessanta giorni precedenti la Pasqua ortodossa. Il punto è che non si tratta di un vero digiuno: in quei giorni si mangerà vegano, ma non certo di meno. Certo, forse per delle popolazioni in cui la pastorizia e l’allevamento sono tradizionalmente molto importanti può trattarsi di una sofferta rinuncia, ma d’altro canto ciò ha contribuito a rendere ancora più ricca la gamma di alternative disponibili sul menu. Tutti i ristoranti, infatti, dal più economico al più raffinato, offrono necessariamente delle alternative ai piatti di carne, in genere disponibili anche nei giorni in cui il digiuno non è prescritto. Questa è sicuramente una caratteristica degna di nota per i visitatori vegetariani o vegani, che in molti altri paesi africani non hanno vita facile, dato che la carne o il pesce sono onnipresenti, e alle volte è difficile se non impossibile evitarli, vuoi per rispetto verso il padrone di casa, vuoi per problemi di comunicazione che impediscono di capire cosa ci sia nel piatto. In un ristorante etiope, invece, è sufficiente selezionare dal menu quei piatti che riportano l’indicazione “fasting” per avere la certezza di non incappare in cibi indesiderati. Nel caso invece di un pranzo presso una famiglia locale, l’ideale per i vegetariani è cercare di farsi invitare un mercoledì o un venerdì!
Tutti gli altri, invece, potranno apprezzare le innumerevoli varianti di carne, di norma disponibili anche nei giorni in cui gli ortodossi digiunano. I buongustai più coraggiosi – o sprezzanti del pericolo – non possono perdersi il kitfo, la versione locale della tartare, in altre parole deliziosa carne cruda. La carne è in genere freschissima e molto buona, ma esiste il concreto rischio di prendersi dei vermi intestinali. Se proprio non potete fare a meno di provarla, è consigliabile poi fare delle analisi mediche e/o farvi prescrivere dei medicinali capaci di debellare il verme o le larve, qualora avessero trovato ospitalità nelle vostre viscere, a maggior ragione se accusate sintomi di malessere gastrointestinale. Se la sola idea vi disgusta – e non avete torto! – potete sempre ripiegare sui vari piatti di carne ben cotta, che non presentano alcun rischio. Potete per esempio provare il doro wot, ossia lo stufato di pollo, o il tibs, che sarebbe carne fritta. Un altro piatto assolutamente da provare è il bozena shiro, che si presenta come una sorta di ragù con un tocco di piccantezza orientale, e che va accompagnato, ça va sans dire, dall’immancabile injera.
Se avete già l’acquolina in bocca, potete provare a cercare un ristorante etiope dalle vostre parti o anche, perché no, iniziare a pianificare il vostro prossimo viaggio tra Addis Abeba e le meraviglie – naturali e non – dell’Etiopia.
ANNALISA ADDIS, CSAS – Centro Studi Africani in Sardegna