Nairobi. La tragedia di Sinai: uno sguardo sulle condizioni di vita negli slum

Posted on 19 Ott 2011


L’esplosione dell’oleodotto che nelle baraccopoli di Nairobi ha ucciso più di cento persone e lasciato altrettanti senzatetto è stata una tragedia annunciata. Un doloroso evento che si ripete ciclicamente nella storia contemporanea del Kenya. Solo nel 2009, l’incidente di un’autobotte sulla strada per Nakuru (a nord-ovest della capitale keniana) ha causato più di 120 vittime.
La dinamica è spaventosamente simile ai recenti fatti di Nairobi: di fronte a una perdita di benzina, centinaia di persone accorrono nella speranza di accaparrarsi qualche litro del prezioso liquido, poi qualcosa va storto, una sigaretta accesa, una scintilla,  nessuno lo sa dire, ed ecco l’inferno sulla terra.

Giornalisti, commentatori e autorità interrogate sull’accaduto hanno rimandato quasi unanimamente ai tentativi falliti del Governo di sfrattare i residenti degli slum di Mukuru e Sinai. La questione dello “sfratto”, o meglio dislocazione forzata, in Kenya fa parte di un altro triste copione che si ripete costantemente laddove si hanno milioni di persone “landless” senza terra e senza diritti, soggette all’arbitrio delle autorità governative.
Capita spesso a Nairobi di vedere interi insediamenti informali rasi al suolo, lasciando i poveri abitanti senzatetto e senza fornire loro alcuna compensazione. Questi fatti accadono talmente spesso che raramente i giornali ne parlano, a meno che non si vada a colpire una zona dove si trova un’ autorità influente oppure, come in questo caso, accada una tragedia talmente grave da non poter essere ignorata.

Nel 2008, infatti la compagnia parastatale KPC (Kenya Pipeline Company), proprietaria dell’oleodotto difettoso e del terreno circostante, aveva emesso un avviso di sfratto per tutti gli occupanti “abusivi” di Mukuru e Sinai, poveri urbani migrati dalle campagne in cerca di lavoro, per lo più lavoratori occasionali nelle fabbriche della zona con le loro famiglie.
Non avendo altra scelta e ben consapevoli del fatto che il governo non li avrebbe mai “rilocati” o dato loro alcuna compensazione, i residenti si sono strenuamente opposti. La mobilitazione ha raggiunto il culmine quando  200 studenti delle scuole primarie hanno marciato fino al Ministero dell’Istruzione e presentato una petizione, sostenendo la tesi che lo sfratto  avrebbe significato l’allontanamento da ben 10 scuole e quindi la rinuncia agli studi per un’intera comunità.
Alla fine l’avviso di sfratto è stato ignorato e la questione è piombata nel silenzio, fino ad oggi.

Dopo i gravi fatti dello scorso 12 settembre, il Daily Nation, quotidiano nazionale, ha ripubblicato con fierezza l’articolo del 2008 circa gli sgomberi falliti, in cui già si prevedeva la tragedia annunciata, per via del fatto che la comunità di Mukuru e Sinai avrebbe continuato a vivere in prossimità dell’impianto. Alcuni commentatori hanno fatto appello a un maggiore “senso di legalità” alla base (i poveri urbani), altri hanno invocato campagne di sensibilizzazione per informare i “poveri ignoranti” sui rischi della benzina, altri ancora hanno addirittura accusato queste persone di ingordigia, suscitando non poche polemiche.

L’opinione pubblica si confronta con il proprio disagio nei confronti di quanto è successo, facendo autocritica sul proprio senso di legalità e mancanza di rispetto della “proprietà privata”da parte dei cittadini. Sembra che dicano “quello che è successo è una tragedia, ma quelle persone non dovevano essere là”. Non dovevano, certo, ma c’erano; così come ci sono gli altri milioni di persone di Nairobi che vivono la loro vita in condizioni disperate, in un universo parallelo alle istituzioni, in mancanza dei più basici servizi igienici e sociali, costretti nel fango, a ridosso l’uno dell’altro, a muoversi tra stretti cunicoli, rischiando di cadere nelle fogne a cielo aperto, chiusi in 10 in una baracca dopo il tramonto, per non essere aggrediti dalle bande o dalla polizia.

Come giudicare l’istinto di chi vive giorno per giorno, al limite della sopravvivenza, di gettarsi nel rigagnolo delle fogne per cercare di accaparrarsi qualche litro di oro nero caduto dal cielo come una “benedizione”, che si è poi rivelata fatale? Non si può lontanamente immaginare finché non ci si trova a vivere in quelle condizioni. Fatto sta che, al di là delle polemiche sorte intorno alla prossimità dell’insediamento all’oleodotto della parastatale KPC, vi sono dei fatti agghiaccianti.
Nonostante le autorità abbiano dichiarato di “aver risposto immediatamente, non appena informati della fuoriuscita di benzina tra la linea 1 (Nairobi-Mombasa) e la linea 4 (Nairobi-Eldoret) del sistema di oleodotti” e di essere riusciti a contenere almeno “parte dei danni”, fonti rivelano che la fuoriuscita è durata diverse ore e che i residenti della zona avrebbero raccolto la benzina che si riversava lungo il canale fognario per tutta la notte. Pare inoltre che non fosse la prima volta e che le persone fossero solite “servirsi” di ciò che trovavano sparso nell’ambiente.

Quella mattina la benzina si riversava nel villaggio ad una velocita’media di 10.000 litri al minuto, un danno di entità colossali accolto inizialmente con gioia dai più che sul momento hanno probabilmente pensato che avrebbero sfamato le famiglie grazie alla rivendita sul mercato nero (o direttamente al distributore dietro l’angolo).
E poi all’ improvviso il panico, il terrore, l’orrore, il dolore per la perdita delle persone care tra quelli rimasti, lo shock. Lo spettacolo atroce dei corpi sfigurati, irriconoscibili, dei resti non identificati, in una morte anonima come anonima è la loro vita. Nemmeno questo squallido spettacolo è stato risparmiato dalle autorità ai cittadini che chiedevano perché dopo 8 ore quei resti di corpi bruciati fossero ancora lì, per sentirsi rispondere che stavano aspettando le buste o che l’obitorio era pieno. Nemmeno nella morte la dignità.

La rabbia dei cittadini impotenti si riversa ora sulle cause “culturali” del disastro, ma i veri responsabili sono ben lontani dall’essere identificati. Indignarsi per il fatto che le persone siano in grado di mettere su casa a pochi metri da una struttura talmente pericolosa distoglie l’attenzione dal fatto che, come un tecnico della stessa KCP ha fatto notare, “un audit della linea Nairobi-Mombasa rivelerebbe carenze strutturali raccapriccianti”. È come dire allora che un oleodotto può perdere 10.000 litri di benzina al minuto, alla sola condizione che nessuno si trovi da quelle parti? Il fatto che quelle persone si trovassero in una condizione di rischio permamanente rende forse meno grave la responsabilità della KCP, della sua cattiva gestione, della assoluta negligenza e carenza di manutenzione?

È un dato di fatto che l’oleodotto della KPC era obsoleto e non adeguato rispetto agli standard internazionali, secondo cui tali impianti dovrebbero avere una vita massima compresa tra i 25 e i 30 anni. La Nairobi-Mombasa ha piu’ di 33 anni.
Viene allora spontaneo mettere in questione la strategia di espansione adottata dalla KCP e del Governo del Kenya, che proprio poco prima dell’esplosione ha appaltato a una ditta cinese i lavori per l’ampliamento della linea occidentale (Nairobi-Kisumu). Perché investire su una nuova linea mentre quella esistente è vecchia e deteriorata?
Più di 10 anni fa, nel 1999, la KCP aveva commissionato uno studio sull’oleodotto. Tale studio rivelò a suo tempo che la struttura aveva già esaurito il suo corso e ne raccomandava la chiusura e la ricostruzione in toto. Il report è stato ignorato, al contrario la linea è stata espansa.

È a causa di tali decisioni politiche che oggi ci troviamo di fronte a un tale disastro ed è alla luce di questi fatti che oggi possiamo dire: “Si, è stata una tragedia annunciata”.

HELENA PES – Lavora a Nairobi come Coordinatrice Progetto per l’ONG italiana Amici del Mondo-World Friends.

Fonti: Daily Nation, the Standard


Questo articolo è stato pubblicato sul sito di World Friends, col titolo La tragedia di Sinai: uno sguardo sulle condizioni di vita negli slums di Nairobi.