Mal du Sénégal: una terra nel cuore

Posted on 10 Mag 2012


Cammino per le strade di Cagliari in queste meravigliose giornate assolate e mi sembra di non aver mai notato quanto i Senegalesi siano presenti in terra sarda. Li guardo affascinata, sorridente, compiaciuta di ritrovare un po’ del mio Sénégal qui, a casa. Li spio, incuriosita, desiderosa di sentirmi di nuovo nell’altra casa, quella africana. Osservo i loro gesti, il loro stare insieme, ascolto il loro Wolof e goffamente immagino cosa si stanno raccontando… come se potessi o volessi ancora vivere un po’ quella realtà, sentirmi un po’ parte di loro, ritrovare la ‘me’ senegalese. 

Buffo. E forse inutile. Ma bello.

Perché infondo è bello scoprire ancora chi sei. Perché questo succede quando ti confronti con una realtà così diversa dalla tua: sei un’altra persona, spesso ignota a te stessa prima. È bello avere ancora qualcosa da scoprire. E impari i tuoi limiti, vedi nella pratica ciò che è sempre stato una teoria, ché tutto è relativo, e tu in fondo sei nulla a confronto di quanto il mondo è vario.

Osservo i senegalesi vendere in strada i prodotti del loro artigianato locale e qualche collana etnica; l’etnico attira sempre.  E immagino la loro giornata… non mi sembra poi tanto diversa da quella che trascorrono a Saly o nelle spiagge dove possono incontrare i turisti. La mattina si ritrovano a lavoro, per le strade, tutti insieme fino a sera, nel tentativo di vendere qualcosa ogni giorno e portare qualche soldo a casa.

Peccato che attorno tutto non sia “casa”.

Strade sabbiose, nell’aria profumo di café touba, un continuo ricambio di gente a sorseggiarlo durante le frettolose pause; banchetti di frutta, quattro o cinque Nangadef per ogni persona che incontri, Bayefall che chiedono l’elemosina e cantano preghiere ad Allah per raggiungere l’estasi; il vento caldo che solleva la polvere ovunque; e bambini.

Bambini che giocano in ogni angolo di strada, nei cortili delle case, con le capre e un pallone da calcio. Bambini piccolissimi tenuti in spalla dalle sorelle più grandi, o dalle cugine, ma pur sempre Soeur. Scopri che la concezione di famiglia è altro rispetto alla nostra nucleare, sembra quasi che tutti siano figli di tutti, ognuno fa parte del tuo panorama emotivo e ti alleva. Bambini vivaci che ti guardano e ti vengono incontro correndo, urlando «Toubab Toubab, tangal!» (Bianco, bianco, una caramella!).

Le madri sugli usci delle case che, curiose quasi come i loro piccoli, ti osservano e guardano la tua pelle bianca e i tuoi capelli castani e lisci. Ingenuamente non avevo mai pensato che per le altre donne – in questo caso per le senegalesi – noi bianche possiamo essere bellissime. Praticano la de-pigmentazione applicando quotidianamente creme chimiche altamente nocive, ed indossano sempre parrucche. Scopri che hanno una cura per la persona e per la bellezza che non immaginavi. Sono vanitose!

Passeggi per le strade e senti un costante vociare in sottofondo! All’inizio le tue orecchie disabituate si infastidiscono: l’unico rumore che senti per le tue strade è quello delle automobili. Poi ti ritrovi ad amare quel chiasso, dal quale hai imparato a non volerti estraniare. Nelle nostre vite organizzate c’è sempre un posto adatto e atto a svolgere qualsiasi cosa; invece lì tutto si fa nelle strade, nei mercati.

Donne con neonati al seguito che vendono la loro verdura e ignorano l’istituto della “maternità”. Non saprebbero che farsene. Venditori ambulanti di indumenti che noi occidentali abbiamo donato loro per non buttarli al macero. Uomini che commerciano qualsiasi prodotto richiamando in continuazione la clientela; quando passa un bianco sarebbero capaci anche di vendere l’oggetto più improbabile che scrutano nel loro campo visivo.

Aspetti Fatou che ogni giorno intorno alle 14 passa per vendere i suoi succhi: al prezzo di 100 CFA una bustina di Bissap congelato ti rinfresca e ti dà energia. Fai un po’ di siesta con gli amici, sdraiato per terra o sul tuo carretto colmo di vestiti, se passa un “fratello” che vuole curiosare non ti scomodi se non è necessario.  Due Nangadef, quattro formule di ringraziamento ad Allah, un Inshallah e «Alé, ciao!».

Nel mercato al coperto un labirinto di boutiques che espongono prodotti per la persona, creme e tessuti. Quei tessuti coloratissimi che qualunque senegalese indossa. Alcuni non li compreresti mai, altri impari ad apprezzarli, e cambi i tuoi gusti! Ragazzi che instancabilmente dalla mattina alla sera in un metro quadro di spazio cuciono abiti su commissione o da esporre e vendere nella bottega. Si interrompono solo per mangiare una fataya e invocare Allah: si ritagliano un angolo di suolo su cui adagiare il loro tappeto e pregare in direzione della Mecca; tutto attorno le persone percorrono gli stretti sentieri in cemento schivando i metri di stoffa.

La vita pullula. Nené prepara instancabilmente i suoi bigné e pensa alla sua Guinea.

Al tramonto i pescatori rientrano e spingono le loro barche colorate a riva. La loro pelle nera è chiazzata di salsedine, i loro corpi stanchi e il loro viso un po’ provato. Odore di porto, di pesce, di gazoile delle imbarcazioni, di materiale organico in decomposizione sulla e fra la sabbia. Odori indefiniti e indefinibili. La spiaggia si anima di gente che cerca di vendere il pescato fresco, le donne si offrono di pulirti il pesce appena comprato, di seguito il ragazzo che ti vende il sacchetto per portarlo a casa.

Una catena umana a lavoro, dalla mattina alla sera. E un sole arancione che si nasconde dietro l’orizzonte. L’ultimo richiamo del Muezzin della giornata … e a domani. Inshallah.

Chissà se quando tornano a casa, i senegalesi che ho incontrato per le strade di Cagliari si ritrovano tutti insieme a guardare una partita di calcio e mangiare fondé. Chissà se le loro case profumano di incenso come in Senegal … dello stesso incenso. Chissà se il Thieboujin o l’Harissa hanno lo stesso sapore. Chissà se e quanto, svegliandosi al mattino o  tornando a casa la sera, vorrebbero ritrovare la loro famiglia.

Chissà se anche per loro questa Cagliari, così diversa dal loro Sénégal, è diventata un po’ “casa”.


MARTA PUTZOLU, laureanda in Scienze Politiche all’Università di Cagliari. Tra dicembre 2011 e febbraio 2012 ha collaborato con una ONG che opera a Mbour grazie al programma Globus Placement.