“Perché Iddio ha creato il Sahara deserto?… Perché sia un rifugio per chi vuole essere libero”
Ibrahim al-Koni racconta il Grande Sahara libico attraverso la descrizione dettagliata di alcuni luoghi significativi, da nord all’estremo sud (la piana di Hamàda al Hamrà, l’oasi di Cufra, il monte Hassawana, il monte Nafusa, Gebel, Zallàf, la piana di al-Gifara, , il wadi al-Maghraghar, Gianet, ecc.), e attraverso i suoi abitanti e la loro devozione a quel deserto, dove il vagare rappresenta l’unica soluzione per la libertà assoluta.
È in questo territorio dalle mille facce (“c’è il deserto di ghiaia e quello di sabbia, il deserto di roccia e quello di montagna, ci sono altopiani e bassopiani, pianure e valli, trovi ciottoli e massi grandi e medi…e non capita mai che si mescolino tra di loro. Li trovi sempre perfettamente separati, ogni deserto indipendente e diverso dagli altri, come se fossero stati tagliati con un coltello”) che i gesti quotidiani si scandiscono in maniera ritmica, dalla preparazione del pane da cuocere sotto la sabbia al rito del tè, dal pascolo delle capre alla caccia delle gazzelle.
Ma soprattutto, è un luogo di misticismo e spiritualità dove l’interpretazione dei simboli e dei segni diventa una chiave di lettura di buoni o cattivi presagi: l’uccello d’oro, la pianta di ritama, le oasi, i fumi e le voci nella notte del deserto, il serpente della porta di Waw, il vaso pieno d’oro. E ancora le tombe degli antenati, il miraggio, il ghibli, i ginn, i tartufi.
Una raccolta di racconti che pone i tuareg e le loro storie al centro dell’attenzione, marcando continuamente i principi della loro esistenza: “l’essere umano nel deserto può essere soltanto una palma saldamente ancorata al terreno grazie alle radici oppure il vento del ghibli che vaga senza sosta. Il contadino è la palma, il nomade è il ghibli che non smette mai di errare”. La vita del nomade del Sahara è descritta in tanti modi e in tante frasi, ma tutte esprimono lo stesso concetto: solo l’uomo che sceglie di dedicare sé stesso al suo deserto è veramente libero: “il nomade ha per coperta il cielo disseminato di stelle, il suo cuscino è lo spazio aperto, vaga come le gazzelle e non si inginocchia davanti a nessun luogo. È libero come un uccello, e non un prigioniero che attende il sopraggiungere della stagione della mietitura, chiuso dentro al sua capanna”.
Anche chi sceglie di separarsi da quel mondo, che spesso sembra offrire solo sofferenza, finisce per tornare sui suoi passi in quanto “il deserto è una stella solitaria. Chi lo abbandona, si smarrisce”. Il nomade, dunque, non può e non dovrebbe lasciare il Sahara che “ti concede sempre di più di quanto ti promette, ma se lo tradisci, ti dà la caccia ovunque per infliggerti il castigo che meriti.”.
L’autore non tralascia di raccontare come, nel corso della storia, quel luogo di libertà è stato anche teatro di tragici eventi. Con l’arrivo degli italiani “in quegli anni il filo spinato, così come le forche, era stato piantato ovunque” e disseminato di mine che “gli italiani e i tedeschi sotterravano prima della loro ritirata verso Tripoli”.
Non mancano riferimenti particolari come la Battaglia di Kufra (con la quale gli italiani guidati da Rodolfo Graziani, nel 1931, conquistarono l’oasi, importante punto di passaggio verso l’Africa Orientale Italiana), l’Accordo di Maharuga tra italiani e arabi (“firmato a Roma con sigillo di Mussolini”) che permetteva ai libici assoldati per andare in Abissinia di festeggiare le proprie feste religiose, l’uccisione dell’eroe nazionale libico Omar al-Mukthar, che guidò la resistenza anticoloniale contro gli italiani in Cirenaica durante gli anni Venti.
Un deserto di storie, un deserto di uomini, ma soprattutto di anime. Passione, pazienza, fedeltà, alle volte rabbia, sono tutti sentimenti che rappresentano il rapporto dei nomadi con quella terra, con la loro “patria delle visioni celesti”.
“Non piangere mentre ti accingi ad entrare a Waw. Non rimpiangere il viaggio di passaggio che hai dovuto compiere, perché rimanere nella memoria dell’arcano è meglio che scivolare nel deserto del ricordo. Il giorno che Waw chiuderà le porte alle tue spalle e ti accoglierà nudo sarà meglio del giorno in cui ne uscisti, pieno di orgogliosa ostentazione, condannato all’esilio e allo smarrimento.”
MARCELLA TRAMATZU, CSAS – Centro di Studi Africani in Sardegna
Ibrahim al-Koni è nato nel 1948 nell’Oasi di Ghadames, ha trascorso la sua infanzia nel deserto ma ha poi studiato a Mosca e Varsavia. Attualmente vive tra Svizzera e Libia ed è considerato uno dei massimi rappresentanti della narrativa araba contemporanea. I suoi libri sono stati tradotti in diverse lingue. In italiano, oltre La patria delle visioni celesti e altri racconti del deserto, si possono trovare: Pietra di Sangue (1995) e Polvere d’oro (2005).
Ibrahim Al-Koni, La patria delle visioni celesti e altri racconti del deserto, Edizioni E/O 2007