Amina Al Filali era un’adolescente marocchina che si è tolta la vita pochi giorni fa, per colpa di una legge vergognosa, e di una famiglia che ha preferito un becero conformismo alla giustizia. Amina avrebbe potuto diventare la Franca Viola del Marocco, e invece si è celebrato il suo funerale. Chissà che il suo estremo gesto non possa comunque diventare veicolo di cambiamento.
Amina, sedici anni, era stata violentata. Lo stupratore, secondo la legge marocchina, rischiava sino a 5 anni di carcere. Ma c’è un ma: secondo l’articolo 475 del codice penale, il reato si estingue se lo stupratore sposa la vittima. Suona familiare? Magari perché avete sentito parlare del matrimonio riparatore, allora previsto dal famigerato articolo 544 del nostro Codice Penale. Franca_Viola, diciassettenne di Alcamo (Sicilia) violentata da uno spasimante respinto, divenne famosa per aver sfidato apertamente questa pratica, rifiutandosi di sposare lo stupratore, ed anzi denunciandolo. Franca aveva dalla sua parte il sostegno della famiglia. La famiglia di Amina, pur di evitare il “disonore” alla ragazza, l’ha costretta invece a sposare il suo aguzzino (con il consenso del giudice che si era occupato del caso).
Pochi mesi dopo il matrimonio, il 10 marzo, Amina è andata al mercato, ha comprato del veleno per topi e lo ha ingerito.
Il suicidio di Amina ha riaperto il dibattito sulla norma che prevede il matrimonio riparatore. Due ministri, Mustapha El Khelfi (Comunicazione) e Bassima Hakkaoui (Solidarietà, Donna e Famiglia) hanno aperto alla possibilità di modificare la legge.
Alcune ONG che si occupano di diritti delle donne hanno organizzato sit-in di protesta, e la mobilitazione corre anche sul web, dove è possibile firmare una petizione.
Bisogna riconoscere anche che l’impegno di queste organizzazioni non nasce sull’onda emotiva del caso-Amina. Pochi giorni prima del suo suicidio, in occasione della Giornata Internazionale della Donna, il Movimento Alternativo per le Libertà Individuali (MALI) denunciava il fatto che, per il legislatore e per il sistema giudiziario marocchino, la donna violentata è “un’anomalia sociale da redimere attraverso il matrimonio. La salvaguardia dell’ipocrisia sociale è più importante agli occhi del legislatore che il crimine in sé”. E ancora, veniva denunciato il fatto che, in sede di processo, è la donna violentata che deve provare di aver subito il crimine, e non di rado si vede accusata di prostituzione, o comunque sottoposta a dettagliati interrogatori sul perché si fosse trovata sola col tale, o sul suo abbigliamento, e così via.
Qualcosa di simile, non dobbiamo dimenticarlo, avveniva in Italia ancora negli anni ’70, quando si celebrò il famoso “Processo per Stupro”, trasmesso alla RAI. La strategia scelta dalla difesa fu quella di attaccare la vittima, contestando che la violenza avesse mai avuto luogo, e dipingendola come una poco di buono, tanto che l’avvocato dell’accusa (la famosa Tina Lagostena Bassi) dovette spiegare di non essere lì per difendere la ragazza, ma per avere giustizia. Su youtube si possono vedere molti filmati tratti da quel processo.
L’Italia si è liberata del famigerato articolo 544 del Codice Penale nel 1981. Ci auguriamo che il sacrificio di Amina serva a far cancellare l’articolo 475 del codice penale marocchino, e magari induca altri paesi (come Algeria e Tunisia, tra gli altri) a fare analoghe riforme.
ANNALISA ADDIS, CSAS – Centro Studi Africani in Sardegna
Fonti: afrik.com | jeuneafrique.com